Gli approfondimenti da Bruxelles

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SULLA ROTTA BALCANICA.

L’impegno costante per gestire il fenomeno migratorio alle fronterie europee.

La rotta balcanica è un ponte che unisce due mondi. Da una parte c’è il Medio oriente, con tutte le sue complessità, composto da paesi come il Pakistan, l’Afghanistan e la Siria. Paesi dove infuriano le violenze e dove le libertà civili e i diritti umani sono facilmente calpestati.

Dall’altra parte di questo ponte c’è l’Unione europea, culla di valori fondamentali e sogno per le tantissime persone che scappano dalla guerra, dalla fame e dalla paura.

È in quelle terre della rotta balcanica che segnano il confine tra i due mondi, tra la Bosnia Erzegovina e la Croazia, che centinaia di persone sostano, a volte anche diversi mesi, in attesa della propria occasione per raggiungere la libertà. Lì, sopravvivono in situazioni degradanti, nei casi migliori all’interno di campi con scarsi servizi igienici sanitari e beni primari, oppure direttamente nelle foreste, dove spesso sono vittime delle violente percosse e dei soprusi impartiti dalle autorità croate.

E' un gioco spaventoso quello che questi migranti sono costretti ad azzardare: arrivare alla frontiera europea e riuscire a superarla, senza essere malmenati, derubati e respinti dalle autorità di frontiera. Lo chiamano “the game”.

La maggior parte dei migranti perde queste sfide, ma non perde le speranze: dopo aver lasciato le loro case e percorso migliaia di chilometri, nessuno vuole mollare alle porte della agognata Europa. Attualmente, il 45% dei migranti sulla rotta balcanica viene dall’Afghanistan, il 21% dal Pakistan e i restanti principalmente da Siria, Marocco e Iran.

Stiamo parlando della vita di più di 12 mila persone, la maggior parte di loro, il 77%, sono uomini adulti, ma ci sono anche donne, il 6%, e minori che rappresentano il 17%.

LE MISSIONI IN BOSNIA 2021

Dopo aver ascoltato queste storie, a gennaio del 2021 insieme ad alcuni colleghi europarlamentari del Partito democratico mi sono recata nelle regioni più crudeli della rotta balcanica.
Lì, in una terra coperta da un manto gelido di neve, abbiamo trovato centinaia di persone che vivevano nelle tende del campo di Lipa, un’area con soli dieci bagni chimici, circondato dal filo spinato, dove scaseggiava l’acqua.

Stringemmo un patto con loro: lavorare dal Parlamento europeo con ogni strumento a nostra disposizione per garantire loro una speranza concreta.

Per questo a fine ottobre siamo tornati a Lipa, nel nord della Bosnia.
Abbiamo trovato le stesse difficili condizioni. Di fronte al campo tendato, stanno terminando i lavori della nuova tanto attesa struttura: un accampamento di container da sei posti letto ciascuno, che non nascondono il sentimento di precarietà e isolamento.

Consapevoli che per questo campo sono stati spesi circa 3,4 milioni di euro provenienti da finanziamenti europei, abbiamo il dovere di chiederci se questi soldi siano stati impiegati nel migliore dei modi.

Sicuramente, rispetto a quello che avevamo visto a gennaio scorso, i miglioramenti sono visibili, eppure siamo ancora lontani dagli standard che ci aspettavamo.
La difficoltà nella gestione di questo fenomeno è palese: la stessa Unione europea ha spesso cercato di esternalizzare la questione, relegandola a un problema dei paesi del vicinato. In questo caso, la Bosnia non ha una politica nazionale sull’immigrazione e questo causa l’incapacità di gestire razionalmente il fenomeno che viene lasciato in carico alle autorità locali, attori di un continuo rimpallo di responsabilità. È con loro che dobbiamo collaborare per creare un sistema efficiente.
Le storie delle persone che abbiamo incontrato sono state toccanti. Ci hanno raccontato di aver subito violenze, respingimenti illegali da parte della polizia, di essere stati malmenati e denudati. Del resto, Il “Border Violence Monitoring Network” ha esaminato e verificato 35 pushback solo a settembre e ai danni di 815 persone. Più di uno al giorno.

L’Unione europea non può fingere che questo sia un problema di qualcun altro.

Serve aprire immediatamente corridoi umanitari legali per aiutare le persone più fragili. Serve concretizzare il lavoro sulla riforma del regolamento di Dublino e serve un patto europeo per la migrazione che sia responsabile e solidale. Purtroppo, anche all’interno della nostra Unione alcuni paesi si dimostrano a dir poco reticenti nel voler gestire il fenomeno migratorio. Serve allora creare alleanze tra i paesi responsabili al fine di creare un sistema che sia umano e legale.

Siamo decisi nel volere mantenere l’impegno per garantire a queste persone dignità e una concreta opportunità per ricominciare.

Anche per questo lungo il viaggio ci siamo fermati a Trieste, dove abbiamo incontrato le ONG che si occupano del fenomeno in Italia.

In Bosnia, invece, abbiamo visitato il campo di Lipa, dove effettivamente abbiamo riscontrato dei miglioramenti, anche se al di sotto delle nostre aspettative. Abbiamo poi incontrato le associazioni che lavorano ogni giorno su tutto il territorio, fianco a fianco dei migranti, e i rappresentanti delle autorità locali: il sindaco di Bihac e il primo ministro del cantone di Una Suna, che attualmente sono i responsabili della gestione dei campi.
Abbiamo sentito tante storie di violenza e di speranza. Abbiamo rinnovato l’appello agli Stati membri UE di lavorare insieme per immediati corridoi umanitari e per un sistema di gestione del fenomeno migratorio che sia giusto, efficiente e solidale.

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contenuto a cura di Alessandra Moretti
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